Giulio Bacosi

il pentimento della zarina

Una Donna avverte, in genere meglio di un Uomo, che non tutti i Lumi sono nella Ragione…

«Se dovessimo mettere a confronto tutte le epoche della storia russa a noi note», stabilì all’inizio dell’Ottocento lo scrittore Nikolaj Michailovic Karamzin, «quasi tutti sarebbero d’accordo nel ritenere quella di Caterina II (imperatrice dal 1762 all’anno della morte, il 1796) la più felice per i cittadini russi: quasi ognuno di noi vorrebbe vivere allora piuttosto che in qualsiasi altro periodo». Effettivamente — scrive Marco Natalizi in Caterina di Russia di imminente pubblicazione per i tipi della Salerno — la giovane principessa di un ducato tedesco divenuta zarina a seguito della morte non accidentale del marito, Pietro III, regalò un’epopea indimenticabile al Paese di cui era divenuta sovrana e di cui non riuscì mai a parlare in modo impeccabile la lingua.

Nacque nel 1729 con il nome di Sofia di Anhalt-Zerbst — come mette in adeguato risalto Carolly Erickson in La grande Caterina. Una straniera sul trono degli zar (Mondadori) — e nel 1744 si spostò in Russia dove l’aspettava Pietro, nipote (per parte di madre) di Pietro il Grande, anche lui tedesco, suo futuro marito. Lei aveva quindici anni, Pietro sedici. All’epoca regnava sulla Russia Elisabetta, sorella della madre del giovane Pietro: entrambe erano figlie di Pietro il Grande e Caterina I. Era stata Elisabetta a scegliere Sofia come sposa di suo nipote destinato a succederle. Alla morte di Elisabetta (1762), Pietro III regnò solo sei mesi prima di essere ucciso in un complotto a cui non fu estranea sua moglie. Sei mesi nel corso dei quali — concordano gli storici, anche quelli più critici nei confronti di Caterina II – Pietro diede prova di inettitudine. Era un grande ammiratore di Federico il Grande di Prussia e odiava la moglie che, ad un certo punto, avrebbe voluto far arrestare. Del complotto che portò alla sua uccisione (ufficialmente morì a seguito di una crisi di emorroidi) si diedero carico i fratelli Grigorij e Aleksej Orlov (detto «lo sfregiato»). Grigorij fu amante di Caterina, ma non importante come il suo «successore», Grigorij Aleksandrovic Potëmkin. Potëmkin, al fianco della zarina, fece grande la Russia stroncando la rivolta di Pugacëv (1773-75), conquistando la Crimea (1783), fondando Sebastopoli (1784) e impegnandosi in una dura guerra nel Caucaso e nei mari contro l’Impero ottomano. A lui si deve l’allestimento della flotta del Mar Nero.

Ancor più importante di Potëmkin per Caterina, furono, quantomeno sotto il profilo intellettuale, i Lumi. Ernst Cassirer in La filosofia dell’Illuminismo (La Nuova Italia) si sofferma sull’influenza che i filosofi di quella stagione ebbero su tre sovrani: Federico II di Prussia, Maria Teresa d’Austria e, appunto, Caterina di Russia. Anche Franco Venturi — in Settecento riformatore (Einaudi) — mette in risalto la diffusione delle idee illuministe tra i sovrani di madrelingua tedesca. Tutti evidenziano però che la zarina fu la più attiva nel cercare un’interlocuzione diretta con i filosofi francesi. Ma in condizioni di grande difficoltà. Soprattutto per il fatto che — come rilevano Isabel de Madariaga in Caterina di Russia (Einaudi) e Hélène Carrère d’Encausse in Caterina la Grande (Rizzoli) – nel suo impero vigeva ancora la servitù della gleba (che lei diceva di voler abolire).

Il primo che Caterina provò a conquistare fu l’enciclopedista Jean Baptiste Le Rond d’Alembert, invitato nel 1762 ad occuparsi dell’educazione del figlio (il futuro imperatore Paolo I, destinato a diventare assai polemico nei confronti della madre dopo l’uccisione del padre). D’Alembert, però, non solo non aveva accettato, ma aveva scritto una lettera a Voltaire in cui aveva giustificato il proprio rifiuto di restare in Russia con una velenosa allusione alla morte di Pietro III («Purtroppo soffro troppo di emorroidi che, in quel Paese, sono una cosa assai seria», aveva scritto non senza malignità all’autore del Candido).

A questo «mezzo fallimento», scrive Natalizi, Caterina riparò stabilendo una corrispondenza epistolare con Voltaire, del quale strappò «l’esclusiva» a Federico di Prussia. Fu un discreto colpo propagandistico. Le questioni discusse con l’illustre pensatore saranno per Caterina «l’occasione per intonare, a seconda della circostanza, una nota diversa del proprio componimento musicale più che per rispondere nel merito alle questioni toccate dal filosofo illuminista». Natalizi sottolinea come attraverso lo scambio epistolare con Voltaire la zarina abbia trasformato la tradizionale necessità di comunicare in una «campagna di comunicazione permanente». Infatti quel carteggio tra la zarina e il filosofo ci porta al cospetto di un nuovo fattore della politica di Caterina: «Quasi un’ideologia che combinò il processo di creazione dell’immagine con il calcolo strategico del governante». Nel muoversi su questo binario, la zarina «trasformò l’esercizio del potere in una promozione personale continua, capace di fare del governo uno strumento per sostenere la sua popolarità e delle attività una parte integrante della prassi dell’autocrate».

Ma l’imperatrice voleva completare questo disegno avendo un filosofo a corte, a sua disposizione. E voleva avercelo in carne e ossa. Orlov ci provò con Jean-Jacques Rousseau («che peraltro Caterina non amava», puntualizza Natalizi): ma l’autore delle Confessioni rispose di no. Pierre-Paul Mercier de La Rivière accettò nell’inverno del 1767 di recarsi a San Pietroburgo. Ma non faceva che chiedere «sontuosi emolumenti» (e fin qui …). Pretendeva anche di scrivere gran parte del programma educativo e lasciò intendere che avrebbe volentieri guidato l’intero Paese potendo vantare — sosteneva — un’esperienza di governatore della Martinica. La zarina, non appena le riferirono di quella proposta, non volle credere alle proprie orecchie e gli diede all’istante l’autorizzazione a tornarsene in Francia.

Quando ormai quasi disperava di avere un filosofo «tutto suo» a corte, Caterina riuscì a coronare il sogno. Procedette per gradi nell’impresa di conquistare l’altro enciclopedista, Denis Diderot, offrendogli di continuare a Riga la pubblicazione dell’Encyclopédie. Gli diede successivamente un sostegno per consentirgli di uscire da particolari difficoltà economiche. E quando, «per far fronte alla futura dote della figlioletta», il filosofo mise in vendita la propria biblioteca, la zarina si offrì di rilevarla. Non solo. Gliene concesse l’usufrutto a vita, lo nominò bibliotecario e per giunta gli assegnò una lauta pensione annua da corrispondergli in una rata unica. Anticipata. Diderot, prosegue Natalizi, la ripagò «non solo tessendo le sue lodi e dispensando consigli ai russi in Francia, ma anche reclutando talenti disposti a servire l’autocrate».

Nell’ottobre del 1773 l’allora sessantenne Diderot sostenne un viaggio faticosissimo per recarsi a San Pietroburgo e trattenersi quattro mesi alla corte di Caterina. I due ebbero oltre quaranta incontri, documentati nei minimi dettagli da Robert Zaretsky in Caterina e Diderot (Hoepli). La prima conversazione tra la zarina e il filosofo si svolse nella stessa settimana in cui l’imperatrice aveva convocato il consiglio imperiale per discutere della rivolta di Pugacëv. Rivolta che, scrive Zaretsky, aveva terrorizzato Caterina «soprattutto perché un impostore aveva minacciato non solo di minare il suo potere ma anche di ricordare all’opinione pubblica (sia russa che europea) quanto fossero labili le pretese di legittimità dell’imperatrice». Diderot le rispose con una sofisticata dissertazione sul concetto che «il popolo, se anche non è veramente libero, deve almeno credere di essere libero». Non si tratta, come potrebbe sembrare, di una lezione di cinismo. Diderot spiega alla sovrana quanto sia preziosa per un popolo non libero «l’idea che ha della propria libertà». E quanto spinga invece alla rivolta tutto ciò che gli dà la sensazione di essere «schiavo».

Come fu possibile che i filosofi illuministi si lasciassero sedurre, in un modo o in un altro, da Caterina? «Come accade a tutti gli intellettuali vanesi», ha scritto Simon Sebag Montefiore in Romanov (Mondadori), «il favore dei potenti faceva loro girare facilmente la testa e avevano un debole per i despoti appariscenti e illuminati». Caterina «condivideva sinceramente le loro idee e aborriva la schiavitù». Ricordava, secondo Montefiore, «come dietro le facciate dei palazzi barocchi, in particolare a Mosca, i servi della gleba fossero imprigionati in fetide segrete». Grazie al memoriale di Jacques-André Naigeon, scritto due anni dopo la morte di Diderot, conosciamo persino il copione dei dialoghi tra Caterina e il filosofo. Di solito, riferisce Natalizi, Diderot rispondeva liberamente alle domande della zarina sugli argomenti più vari. Nel caso «la risposta richiedesse un’argomentazione più articolata», egli «la metteva su carta e la consegnava alla sua interlocutrice». La Miscellanea filosofica di Diderot che raccoglie questi scritti, «rappresenta una testimonianza dell’ampiezza delle questioni affrontate e della straordinaria libertà di espressione che caratterizzò il dialogo tra i due».

Isabel de Madariaga afferma che molte delle convinzioni di Diderot, «allettanti sul piano teorico, apparivano prive di qualsiasi riferimento ad una realtà come quella russa»: per quanto «nobili, generose e, sotto molti aspetti, idealistiche», delineavano «una forma mentis piuttosto che un programma politico». Natalizi concorda con l’autrice di Caterina di Russia, ma fa notare «che la stessa forma mentis tradotta in programma di lì a poco avrebbe portato un altro monarca, Giuseppe II (costretto ad operare con non meno vincoli della sovrana russa), a realizzare interventi radicali». Primo tra tutti, l’abolizione, a partire dal 1781, della servitù della gleba.

Diderot tornò in patria nel 1774 e morì nel 1784, cinque anni prima che scoppiasse la Rivoluzione francese. Caterina sopravvisse fino al 1796 ed ebbe il tempo di seguire l’intero ciclo del terrore compresa la decapitazione di Luigi XVI (gennaio 1793) e di sua moglie Maria Antonietta (ottobre 1793). In quegli anni ebbe un ripensamento sull’intera produzione dei filosofi francesi. A Melchior Grimm — che di Diderot (ma anche di Rousseau) era stato uno stretto amico e collaboratore e che dirigeva il quindicinale «Correspondance Littéraire» — confidò quanto gli scritti degli illuministi le apparissero ora come qualcosa che era servita «soltanto a distruggere»: Di più: ad aprire la strada a «calamità senza fine» e a «innumerevoli individui abietti». A leggere le sue lettere del periodo della Rivoluzione francese, scrive Natalizi, «è netta l’impressione che Caterina stesse vivendo quella stagione con la consapevolezza di avvicinarsi sempre di più al baratro». Nemmeno le celebrazioni nel febbraio del 1794 per il cinquantesimo anniversario del suo arrivo in Russia «le procurarono un qualche sollievo». Nel guardarsi intorno «a fatica riusciva a scorgere tra gli astanti dieci persone che avevano potuto assistere all’avvenimento che veniva celebrato». Erano tutti anziani e tutto le appariva insopportabilmente vecchio. A cominciare da lei stessa.

E gli ideali illuministi? Li aveva fatti propri il patriota ed eroe della Rivoluzione americana Tadeusz Kosciuszko che il 13 marzo 1794 si era posto alla testa della rivolta di Cracovia. Il 6 aprile Kosciuszko aveva raggiunto Varsavia dove il plenipotenziario russo era riuscito a fuggire mettendosi in salvo nel campo prussiano. Contemporaneamente tremila russi venivano catturati e fatti a pezzi dai rivoltosi mentre il virus rivoluzionario si diffondeva in Lituania. Il 20 aprile si riunì il Consiglio di Stato russo per condannare la «perfida e traditrice cospirazione» e organizzare un cordone sanitario contro «l’idra dei giacobini». Resta da domandarsi se, con vent’anni di meno e avendo ancora al fianco i collaboratori più energici e illuminati, Caterina avrebbe potuto dare una lettura diversa dello spirito dell’Ottantanove. È probabile di sì. Ma è certo che, dopo la partenza di Diderot e l’esaurimento del loro confronto, la sua Russia poteva essere solo uno Stato assolutista. Pur con tracce di illuminismo. Ma — negli ultimi anni alla fine del Settecento — in questa esperienza di «assolutismo illuminato» il sostantivo prevalse sull’aggettivo.

(Corriere della Sera)

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