Giulio Bacosi

Dante è musica: ecco perché fa bene ascoltarlo

“… ed elli avea del cul fatto trombetta” (Inf., XXI, 139)
La Musica è Regola, Misura, Armonia.
Basta leggere la Commedia per sentire suonare, in effetti, tutti gli strumenti.
Anche quelli che meno Ti aspetti.

Dove sta il bello di quelle che chiamiamo, di solito con la maiuscola, «Lecturae Dantis» da quando, domenica 23 ottobre 1373, Giovanni Boccaccio cominciò a leggere e a spiegare in pubblico il poema sacro nella chiesa di Santo Stefano in Badia, l’abbazia benedettina di Firenze? Si potrebbe rispondere con quel grande lettore che fu Vittorio Sermonti, il quale quando gli si chiedeva che cos’ha da comunicare l’Alighieri a un ragazzo d’oggi elencava: «Piacere, bellezza, complessità, coraggio, orgoglio di identità, speranza…».

D’accordo, ma perché stare ad ascoltare una voce che legge Dante? Se il poema ha mille risorse, si tratta intanto di vedere che voce è e che cosa dice quella voce. Quella di Sermonti è diversa da quella di Arnoldo Foà, che è diversa da quella di Carmelo Bene, che è diversa da quella di Vittorio Gassman, che è diversa da quella di Roberto Benigni, che è diversa da quella di Massimiliano Finazzer Flory che ieri sera ha letto il I e il II canto dell’Inferno al Duomo di Milano, accompagnato dal violoncello di Simone Groppo, con introduzione di Massimo Cacciari. (È l’inizio di una lettura integrale della Divina commedia diretta dallo stesso Finazzer Flory in collaborazione con la Fabbrica del Duomo e la Biblioteca Ambrosiana). Dunque, il bello delle lecturae Dantis sta (o starebbe) nel bello della Commedia. Intanto c’è l’ascolto, la musica dei versi che, come diceva il poeta e critico Giorgio Orelli, ci fa allibire: e lo diceva alludendo a un famoso incipit di Ungaretti, «Allibisco all’alba», dove si esprime tutta la sensualità del suono che si fa senso e dunque poesia.

«Leggendo gente come Dante e Pascoli — aggiungeva ironicamente Orelli — io allibisco anche a mezzogiorno». La voce giusta, appunto, ci lascia sempre allibiti. Quella che non declama ma legge semplicemente, ci fa sentire come dalla prigione della terzina e delle rime incatenate riesca a liberarsi miracolosamente il racconto storico, morale, biografico, spirituale, fantastico. Leggere semplicemente si fa per dire. Perché in Dante a ben guardare non c’è niente di semplice, ed è anche questo il suo bello. Il bello che possiamo richiedere a una lectura Dantis. Nulla che possa venire incontro alla nostra richiesta di banalità e di libertà (da oltre un secolo siamo nell’epoca del verso libero): i versi di Dante incatenano e complicano il pensiero ma proprio per questo lo rendono anche miracolosamente affascinante.

E dunque se alla lettura chiediamo di restituirci il «suono dei sospiri», al commento chiediamo di resistere alla nostra ansia di attualizzazione per farci comprendere le forme e i contenuti (politici, religiosi, morali, sociali eccetera) della distanza. Anche la durezza della distanza. Per farci capire come sia possibile che un testo per molti aspetti tanto remoto possa ancora scaldarci o, come diceva quel tale, aumentare i battiti del nostro cuore in virtù della sola poesia. Della sola poesia? Anche qui si fa per dire. Che significa? Della sola poesia significa non certo tecnica (che Dante possedeva al sommo grado fino al virtuosismo), ma immaginazione, sensibilità, conoscenza. Il bello della lectura Dantis è anche questo: capire che il vero piacere (della poesia, ma in generale) richiede il massimo dello sforzo e della concentrazione.

(Fonte: Corriere della Sera)

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