Giulio Bacosi

Se l’ultima tentazione è cancellare i classici

Dovremmo ricordare a chi fa queste proposte che i Miti classici sono degli archetipi.
Dietro ai quali pulsa la nostra stessa esistenza; materiale e, soprattutto, spirituale.

Da qualche tempo nelle università americane si è acceso un vivace dibattito su questo tema: decolonizzare la cultura greca e romana, riducendo il ruolo che il curriculum classico svolge nella formazione umanistica. Hanno fatto soprattutto scalpore le ripetute dichiarazioni di Dan-el-Padilla Peralta, uno studioso di storia romana che insegna all’Università di Princeton. Il New York Times gli ha dedicato un lungo articolo (forse troppo lungo) e questo ha dato alle sue tesi una immediata risonanza internazionale. La sua condanna è senza appello: i classici hanno contribuito in maniera determinante alla formazione di una “white culture” da cui sono derivati colonialismo, razzismo, nazismo e fascismi. Dunque chiudiamo i dipartimenti di “classics” e facciamola finita. Altri studiosi, sia pure non con lo stesso radicalismo, hanno messo in evidenza i caratteri negativi della cultura antica, come la discriminazione subita dalle donne nell’Atene “madre” della democrazia. Senza contare che in alcuni college degli Stati Uniti ci si è chiesti se continuare a far studiare testi che — come le Metamorfosi di Ovidio — narrano vicende di “amori” che per noi costituiscono altrettanti casi di violenza femminile. Possiamo condannare il femminicidio e nello stesso tempo ammirare i versi in cui Apollo incenerisce Coronide perché lo ha tradito? Questo non significa che negli Stati Uniti si stia andando verso un declino dei Dipartimenti Classici. Al contrario, sono numerosi e attivi. In alcuni di essi si fanno anzi sentire le contiguità con i dipartimenti di “studi di genere” ovvero di “women studies”; o si recepisce comunque l’ispirazione che viene dagli “studi postcoloniali”. Insomma almeno parte degli studi classici, negli Stati Uniti, si è «assunta la contraddizione», come si diceva una volta, trasformandola in materia di discussione e di ricerca: che è poi l’unica cosa intelligente da fare in casi del genere. Anche se un critico malevolo potrebbe considerarlo solo un modo per salvarsi la coscienza.

D’altra parte, ad affermazioni come quelle di Dan-el-Padilla sarebbe facile ribattere che il passato va affrontato con gli strumenti della storia, non con l’ideologia della cancel culture. Molto più giusto e ragionevole, però, sarebbe cercar di capire perché il problema di decolonizzare i classici si ponga in America; mentre nel nostro paese, a quel che mi risulta, questo non accade. E sì che con l’avvento del fascismo (ma anche ben prima) l’Italia ha usato e abusato ideologicamente del proprio passato romano, come molti studiosi hanno ben documentato. Il mito di Roma ha costituito uno dei pilastri del ventennio, dunque anche delle sue sciagurate avventure interne ed esterne, con la convinta adesione di storici e classicisti. E non fu solo questione di celebrare il 21 Aprile, Natale di Roma, al posto del primo maggio socialista, o di esibire ovunque i fasci littori. Quando il 18 Dicembre 1935 le mogli italiane furono chiamate a donare alla patria le loro fedi, per sostenere la guerra d’Etiopia, esse si comportarono (o furono costrette a comportarsi) da brave matrone romane: ripetendo ritualmente il gesto compiuto un dì dalle loro antenate, che con il proprio oro riscattarono Roma dai Galli. Un bel modo di costruire “romanamente” la donna italiana, cittadina perché moglie e viceversa.

In realtà capire perché in America si agitino impulsi “anti-classics” non è così difficile. Negli Stati Uniti non ci sono solo i “bianchi” che si riconoscono nella cultura occidentale, ci sono anche gli “altri”, anzi ce ne sono sempre di più: comunità di neri, asiatici di ogni provenienza, “Latinos” che di latino hanno solo il nome. A tutti questi gruppi sarebbe difficile presentare la cultura classica come “radice” della civiltà. Ai neri prima di tutti, perché la società schiavista antica non può che ricordare il loro drammatico passato. Quanto agli indiani potrebbero ripensare a quando i colonizzatori inglesi leggevano Virgilio sulle navi che trasportavano i soldati nel loro paese; e i “Latinos” ricordare che i missionari, strappando i loro antenati dai propri villaggi, in latino li costringevano a pregare. In Italia la situazione, ovviamente, è tutt’altra. A differenza degli americani noi i classici ce li abbiamo in casa, c’è Roma, Pompei, Agrigento, ci sono i musei, le biblioteche… Questa nostra oggettiva condizione, assieme a una tradizione di studi ben altrimenti radicata, ci ha permesso di rimuovere il ricordo della nostra classicità ideologica, o forse ci ha semplicemente costretto a farlo.Soprattutto, però, da noi gli “altri”, le comunità, non ci sono. O meglio non ci sono ancora. Perché quando in Italia i gruppi di immigrati saranno così numerosi, e organizzati, da chiedere il riconoscimento del “loro” proprio passato, comprendente anche le prevaricazioni subite da parte della nostra cultura forse le cose potrebbero cambiare. E allora ci vorrà sempre più storia, sempre più intelligenza, sempre meno identificazione con il nostro passato classico e sempre maggiore capacità di vedere (antropologicamente) Greci e Romani non solo come i nostri antenati ma, nello stesso tempo, come “altri” da comprendere e confrontare con “noi”.

Sarà per questo che oggi crescono invece i movimenti identitari? Che a destra si sentono risuonare inviti a «tornare a Roma, la sorgente da cui duemila anni fa ha zampillato l’acqua pura della nostra identità »?

(Fonte: Repubblica)

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