Giulio Bacosi

Le affinità segrete tra Dante e Baudelaire

La cultura, si sa, non ha confini.
Esiste tuttavia una Cultura tutta italiana.
Un Tesoro inestimabile, al quale hanno attinto (e attingeranno sempre) da ogni dove.
Gestiamolo con intelligenza, prudenza e saggezza.

Tra la morte di Dante e la nascita di Baudelaire corrono cinquecento anni esatti, mezzo millennio nel corso del quale il vate laureato ha lasciato cadere la sua aureola senza però rinunciare al sacro, anzi apprestandosi a divenire veggente. La selva oscura ha fatto spazio alla foresta delle Corrispondenze , che è natura e poi metropoli, scenario di una nuova commedia, interamente umana. In Dante il mondo tangibile era un sogno divino, questa materia onirica manipolata da Cusano, Bruno e Spinoza è diventata progressivamente anima del mondo e natura. Schelling consegna al Diciannovesimo secolo un Dio celato nell’universo degli enti e in questo tempio il poeta si è posto in ascolto.

Il palazzo enciclopedico dantesco, il rigoroso teatro di memoria della Commedia , ha ceduto il posto a un dedalo popolato da santi, da peccatori e dalla folla dei mediocri. L’irruzione della Gerusalemme terrestre in quella celeste ha dato vita a un’unica complessa realtà, una foresta di tubi ed erbacce, di cemento e fumo, che Parigi si presta a incarnare. Nelle banlieue il male s’insinua dappertutto, persino nei fiori che nascono nel fango del macadam, il sole che accende le sterminate periferie non è una luminosa figura metafisica, ma un astro, così lo descrive Baudelaire in Le soleil , che batte crudele dove la campagna assedia la città, in luoghi di sostanza incerta che il poeta ama perché in essi le frontiere esitano e diventa possibile vagare intrecciando versi e pietre.

La volta celeste e l’aureola, rovinate a terra, hanno fecondato la città tramutandola in un’immensa distesa di lettere. Ovunque risuona la lingua originaria, perduta a causa dell’assalto al cielo condotto da Nembrot, re di Babilonia. Per aver guidato questa empia sfida, Dante condannò il costruttore della torre di Babele a farfugliare frasi senza senso per l’eternità e così lo immaginò Gustave Doré, con un’inutile corona e incatenato. Doré è uno dei fili che tiene assieme questa storia, anche per essere amico di Gerard de Nerval e di Dumas padre. Ma qual è il nesso tra Nerval, Dumas e Baudelaire? E cosa li lega a Dante? La rispo- sta si trova all’Île Saint-Louis, precisamente nell’Hôtel de Lauzun, un palazzetto barocco che, al principio degli anni Quaranta, era diventato un punto di ritrovo di artisti e scrittori. Molti ci andavano a trascorrere la serata e qualcuno vi abitava in modo stabile, tra i residenti bisogna ricordare almeno Théophile Gautier e Baudelaire, che qui compose i primi versi dei Fiori del male , poema dedicato allo stesso Théophile.

Fu lì che il circolo letterario più influente del mondo ha avviato un processo di trasformazione della visione mistica, ancora di matrice dantesca, in una sperimentazione medica di sapore positivista ma di esiti incommensurabili. Alle riunioni del cosiddetto Club des hashischins era possibile incontrare Delacroix, Balzac, Flaubert, Hugo o, per l’appunto, Dumas e Nerval. In un resoconto di quelle serate, apparso nella Presse nel 1844, Gautier così descriveva la metamorfosi dei suoi compagni: «Vedevo ancora i miei compagni a momenti, ma metà uomini, metà piante, con l’aria pensierosa di ibis in piedi su una zampa, di struzzi che battevano delle ali talmente strane da farmi torcere dal ridere nel mio angolo».

Queste creature che sembrano partorite dalla fantasia di Dante sono prodotto di quello che Henry Michaux, con una impareggiabile locuzione, avrebbe definito un Misérable miracle . L’estasi chimica era diventata di moda nel 1821, De Quincey aveva infatti mandato in stampa Confessioni di un oppio ma nell’anno di nascita di Baudelaire, cui fatalmente sarebbe toccato il compito di curarne la traduzione. Ben prima di quella versione in francese, il racconto dequinceyano aveva avuto successo nei salotti anglofili d’oltremanica favorendo la diffusione di oppio e hashish tra gli intellettuali. I viaggi interiori generati dalla droga erano percepiti come una riproposizione scientifica di una discesa agli inferi. Così, confusa all’hashish, la peripezia dantesca sembra risuonare nelle avventure di Dantès, esplicitamente quando il Conte di Montecristo lancia il suo invito al viaggio nei paradisi artificiali: «Bisogna che la natura vinta soccomba nel conflitto; bisogna che la realtà ceda al sogno, e allora il sogno regna come padrone, allora è il sogno che diventa vita, e la vita diviene sogno. Ma qual differenza in questa trasfigurazione! Paragonando i dolori dell’esistenza reale ai godimenti della fittizia, non vorrete più vivere, ma vorrete sempre sognare.

Quando lascerete il vostro mondo per passare al mondo degli altri, vi sembrerà di passare da una primavera napoletana a un inverno della Lapponia. Vi sembrerà di lasciare l’Eden per la terra, il cielo per l’inferno. Gustate dell’hashish mio caro, gustatene!».

La terra, l’Eden, il cielo, l’inferno e il sogno sono elementi danteschi che Nerval, in Aurelia, o il sogno e la vita, ha tradotto in una Parigi che intanto scompariva sotto i colpi di Haussmann e alla quale Nerval s’ancorava in una gelida notte del gennaio 1855. Dumas fu tra i primi a vedere il cadavere dell’amico, visione resa da Doré in un’incisione con fantasmi e fantasmagorie che s’associano al suicida appeso a una grata della rue de la Vieille-Lanterne, una via che non esiste più o, meglio, che è divenuta parte di quella seconda Parigi, di cui la prima è un supporto sensibile. Alla metà del secolo l’intersezione tra queste due dimensioni dava vita a una città riflessa, sintesi di memoria e immaginazione. Le piccole piazze dei Tre moschettieri, dei Miserabili o di Papà Goriot, gettavano la loro ombra sulla nuova capitale di Napoleone III. Nelle librerie s’inseguivano Aurélia (1855), la versione definitiva delle Confessioni di un oppiomane (1856) e I fiori del male (1857). Baudelaire s’era messo intanto a lavoro sulle Confessioni, che appariranno nei Paradisi artificiali (1860), e nel 1861 Doré avrebbe consegnato la sua Commedia. Un vento allucinatorio soffiava sui boulevard in costruzione, trasformandoli in luoghi d’illuminazioni profane e di stagioni all’inferno, tuttavia il sacro appariva al fondo di ogni scorribanda blasfema, tanto che è possibile ravvisare un sogno edenico anche nella Comune e intuire una qualche suggestione cabalista nelle Voyelles di Rimbaud. Baudelaire era già scomparso, ma i suoi versi avevano trasformato Parigi in una foresta di simboli. Con i suoi martiri e i suoi campi elisi, la capitale del XIX secolo aveva acquisito lo statuto ambivalente di paradiso sognato e di peccaminosa selva oscura.

Oggi non è più così, ma un riverbero delle flâneries disegnate dai membri del Club des hashischins è giunto sino a noi attraverso le passeggiate surrealiste e le derive situazioniste.

Ancora, nelle città labirinto contemporanee, occorre apprendere l’arte di perdersi: «I nomi delle strade — ha scritto Benjamin — devono suonare all’errabondo come lo scricchiolio dei rami secchi, e le viuzze interne gli devono scandire senza incertezze, come le gole montane, le ore del giorno».

Smarrirsi, per tornare poi a riveder le stelle.

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