Giulio Bacosi

La nostra classe dirigente e Il sapere che serve in politica

Lucido come sempre Galli della Loggia: per “governare” occorre “sapere”.
Un nocchiero che non sa leggere le carte nautiche, nella migliore delle ipotesi, non conduce alla meta.

Ma qui c’è qualcosa di molto più basilare e personale. C’è l’esperienza e la formazione culturale dei singoli, c’è la biografia di coloro che nell’ultimo trentennio hanno ricoperto l’incarico di parlamentari o ministri della Repubblica. È in questa direzione che va indirizzato lo sguardo cominciando da un confronto con il passato.

La prima Repubblica — i cui traguardi appaiono sempre più straordinari con il passare del tempo — fu dominata sul versante governativo democristiano da quattro nomi: De Gasperi, Andreotti, Moro e Fanfani. I primi due, dopo aver frequentato con merito il liceo classico avevano avuto una precocissima e intensissima (anche se per mille ragioni diversissima) esperienza organizzativa e politica; Moro e Fanfani, invece, erano entrambi professori universitari provenienti anch’essi dall’associazionismo cattolico. Sul versante degli altri partiti la quasi totalità dei loro leader più significativi proveniva dall’attività più o meno clandestina contro il fascismo (con l’eccezione di Craxi e Berlinguer, troppo giovani). Cioè da una scuola di carattere e di disciplina ispirata ovviamente al più totale disinteresse, dove quel che contava oltre il coraggio erano le idee: in altre parole i libri, i giornali, il saper leggere e scrivere. Con le ovvie diversità del caso lo stesso più o meno valeva pure per gli esponenti del neofascismo.

La cesura è intervenuta alla metà degli anni Novanta. Segnata per quel che riguarda l’argomento di cui ci stiamo occupando da tre fatti: a) il progressivo ringiovanimento della classe politica (in questa legislatura l’età media — media! — dei deputati è di poco meno di 44 anni e oltre un terzo di essi non ha avuto alcuna esperienza politica precedente; b) la presenza sempre più massiccia in politica di uomini del fare provenienti direttamente dal mondo tecnico-imprenditoriale (l’avvento di Forza Italia è stato da questo punto di vista decisivo); e infine c) l’inizio del disfacimento dell’intero sistema dell’istruzione (alleggerimento/banalizzazione di tutti programmi, riduzione delle ore di storia e geografia, rilassamento disciplinare e crescente irrilevanza dovunque dell’accertamento del merito, introduzione della laurea 3+2 nell’università, venir meno di qualsiasi controllo dell’istruzione sulla soggettività giovanile a causa soprattutto della digitalizzazione dilagante).

Incompetenza

La misera pochezza nasce dal dileguarsi delle élite, dal vuoto ideale, dall’incapacità delle istituzioni educative

In pratica dunque — grazie anche all’abbandono della vita pubblica da parte di ogni tipo di élite — una percentuale sempre più ampia della classe politica di vertice del Paese si è trovata composta di individui giovani o relativamente giovani con alle spalle studi mediocri e perlopiù privi di una buona cultura di base (del resto basta ascoltarli quando parlano), e che non sono mai stati chiamati a dare una qualche prova significativa delle proprie capacità e del proprio carattere. Si aggiunga un ultimo elemento ancora: e cioè che grazie a leggi elettorali che virtualmente sottraggono agli elettori qualsiasi concreta possibilità di scegliere i propri eletti, quasi sempre la loro presenza in Parlamento è stata dovuta a una cooptazione basata esclusivamente sul criterio della fedeltà e dell’obbedienza.

Tra i fattori che hanno determinato la pessima qualità della nostra classe politica mi sembra particolarmente importante l’assenza di quella particolare componente della cultura di base che è la cultura umanistica (non necessariamente classica, non necessariamente il latino e il greco), checché ne possa dire chi evidentemente non si è mai chiesto come mai nella vicenda ormai più che secolare delle grandi democrazie gli ingegneri, i chimici o gli imprenditori che abbiano ricoperto la carica di capo del governo siano un numero assolutamente esiguo. Un puro caso?

Non credo. È più ragionevole supporre, mi pare, che ciò sia dipeso dalla scarsa spinta a dedicarsi alla vita pubblica da parte di chi possiede un sapere o esercita un’attività fortemente connessi alla pratica o alla razionalità formale. Ambiti cioè che poco hanno a che vedere con la politica, il cui cuore, contrariamente a quanto molti pensano non sta in alcun saper fare ma altrove. Il cuore della politica democratica sta piuttosto nel capire l’aria dei tempi e nel presagire il futuro, in un mix di realismo e di fantasia, di fermezza e di duttilità; sta nella conoscenza del passato e nell’aver frequentato i luoghi del proprio Paese, sta nell’intendere i suoi problemi, le loro premesse e le loro connessioni, e nell’immaginarne le relative soluzioni (immaginare non gli aspetti pratici, che semmai sarà compito dei tecnici mettere a punto, bensì il principio di fondo su cui basare l’eventuale soluzione). L’essenza della politica democratica sta nella capacità di trattare le persone, e quindi di suscitare convinzioni ragionate e insieme emozioni, e dunque anche nella retorica, cioè nel saper trovare le parole giuste per arrivare al cuore e alla mente della gente comune, le parole semplici ma insieme alte che accendono le speranze e le volontà.

Proprio di tutte queste cose da anni mostra di fare tragicamente difetto la classe politica italiana. Delle cose che nella nostra tradizione sono considerate da sempre non come il prodotto di uno specifico saper fare, lo ripeto, bensì di un sapere generale nutrito di storia, di diritto, di economia, di letture di ogni tipo, di una conoscenza dell’umano e del mondo che deriva dalla dimestichezza con i libri, le persone, le idee, che parlano di entrambi. Ma diciamolo chiaramente: la misera pochezza della nostra classe politica non viene dal nulla. Nasce da quello che è diventato il nostro Paese negli ultimi decenni. Nasce dal dileguarsi delle élite, dal vuoto ideale, da un certo disinvolto appiattimento delle relazioni sociali, dalla crescente incapacità delle istituzioni educative. La classe politica italiana non può guarire l’Italia proprio perché è essa stessa parte della sua malattia: in Mario Draghi riconosciamo tutti con sollievo almeno un medico all’altezza della gravità del morbo.

(Fonte: Corriere della Sera)

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