Giulio Bacosi

Il pianista morto da rider “Con il jazz non si vive più”

La pandemia continua inesorabile a mietere vittime.
E non soltanto nella relativa foggia di morbo.
Un virtuale, forte abbraccio a tutti gli Affetti più cari di questo Giovane volato in Cielo.

Le mani sul volante di quell’auto d’epoca che alla fine lo ha tradito sono l’ultima immagine — postata esattamente un mese prima di morire — di Adriano Urso, jazzista d’altri tempi, pianista appassionato e raffinato, figlio d’arte di un papà contrabassista, e performer musicale assieme al fratello Emanuele, maestro di clarinetto e batteria. Da quando il Covid e la chiusura dei locali hanno spazzato via concerti, esibizioni, palcoscenici e note, Adriano s’era dovuto allontanare, almeno in pubblico, da quel suo grande amore e per campare s’era messo a fare il rider, consegnando pizza, bibite e piatti caldi per Just Eat.

Domenica scorsa la sua Fiat 750, d’altri tempi come tutto in lui, l’ha lasciato a piedi a Roma Sud, proprio durante la sua ultima consegna: il jazzista è sceso, ha provato a spingerla aiutato da altri due passanti fino a che non s’è accasciato a terra, stroncato da un infarto tra le braccia dei soccorritori. Una fine tragica a soli quarant’anni, per un malore forse dovuto a quello sforzo e al freddo della sera, lontano dal suo pianoforte. «Un vuoto incredibile e incolmabile nella mia vita — si sfoga il fratello, con cui formava il duo “King of swing” e si esibiva in altre decine di formazioni sempre rimescolate — Ancora non posso credere che il mondo sia così ingiusto».Gli amici raccontano che eccelleva nel Piano Solo in cui si esibiva raramente, ma che era tornato a registrare nel suo ultimo lavoro a dicembre scorso all’Ellington Club del Pigneto, a Roma. Prima, sempre nella capitale, era di casa con il suo jazz delle origini al Micca di Porta Maggiore, al Gregory’s club e all’Harry’s Bar in centro, al Cotton al quartiere Trieste. E, oltre, aveva girato mezza Italia, fino alla tv, ospite di Renzo Arbore.

«Prendiamo un piano e ti porto a suonare in via del Corso» gli aveva detto qualche mese fa Adèl Tirant, una delle voci femminili che talvolta lo accompagnavano. «Questa situazione è pesante — aveva risposto lui — temo d’aver chiuso con il jazz». Aveva anche pensato di far fruttare quella laurea in farmacia mai usata per dedicarsi a tutto tondo alla musica. Con Adriano Urso, infatti, se ne va anche un archivista di spartiti americani originali che trascriveva come un amanuense, col sigaro in bocca e il whiskey poggiato sul piano, un duro e puro degli anni Trenta, nei modi, nell’abbigliamento e nei gusti, innamorato del pianista Teddy Wilson e della Benny Goodman Orchestra.

«Da sei anni insegnava piano ai bambini come volontario — racconta Federica, una sua amica — Ma senza soldi non si vive e mi aveva raccontato con grande sofferenza che faceva il rider. Mi diceva: “Io vivo di notte, non so che farmene delle dieci di mattina. E ora tutti i miei ritmi e la mia socialità sono stravolti” ».Ieri i funerali all’estrema periferia nord-est di Roma. Con i parenti più stretti e gli amici musicisti a salutarlo fuori. Senza musica, come l’ultima parte della sua vita pubblica.

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