Giulio Bacosi

Assalto al Congresso istigato da Trump Quasi colpo di Stato

La Democrazia non si insegna e non si impara.
Essa non può mai dirsi acquisita una volta per tutte.
Essa “si invera” giorno per giorno, con l’impegno di tutti e di ciascuno, sempre in un clima di massimo ed incondizionato rispetto delle Istituzioni, che tutti “servono” e a tutti “appartengono”.
Il “pensaci prima”, in politica vale dunque “doppio”…

«La democrazia è fragile, è in corso u n attacco alla nostra libertà, allo Stato di diritto, alla sovranità popolare». Sono le 16.06, ora locale, quando Joe Biden parla alla nazione. È allarmato e indignato. Da tre ore ormai divampa «la battaglia di Washington», le convulsioni di una giornata angosciante in cui la più antica democrazia del mondo piomba in stato d’assedio. A riportare l’ordine alla fine è Mike Pence, il vicepresidente, che scarta il suo capo dalla catena di comando e schiera la Guardia nazionale. A silenziare il presidente-agitatore ci pensa Twitter che censura le sue esternazioni. A restituire un senso di normalità alla normalità ferita sono i vertici parlamentari che riprendono a tarda sera i lavori interrotti, verso la ratifica finale dell’elezione presidenziale. In mezzo però c’è stato un vuoto di ore, caos, paura, violenza.

Nel giorno in cui il Congresso si riunisce per celebrare un rito di passaggio, la ratifica finale dell’elezione presidenziale, l’ultimo colpo di coda di Donald Trump è agghiacciante. Il presidente scatena i suoi seguaci più fanatici e violenti in un assalto in piena regola alle sedi parlamentari, con saccheggi, violenze, intimidazioni, occupazioni. All’una in punto il Congresso apre i suoi lavori, e in quel momento la democrazia americana sembra sui binari della convalescenza verso la normalità. Il vice di Trump, Mike Pence, che la Costituzione chiama a presiedere quella sessione speciale del Congresso, in una lettera pubblica si dissocia dai tentativi del suo capo di coinvolgerlo in un ribaltone elettorale. «Amo la Costituzione — scrive il repubblicano Pence — e questa non mi dà l’autorità unilaterale per decidere quali voti devono essere contati». Segue un intervento altrettanto ispirato del capogruppo repubblicano al Senato, Mitch Mc Connell: «Guai a noi se creiamo questo precedente pericoloso, per cui un partito sconfitto alle elezioni usa il Parlamento per capovolgere la volontà degli elettori. Un giorno questo si ritorcerebbe contro di noi».

Ma proprio mentre Pence respinge le pressioni del suo capo che lo vorrebbe protagonista di un golpe parlamentare contro il suffragio popolare, Trump di fronte alla Casa Bianca arringa la folla dei manifestanti — molte migliaia — affluita da tutta l’America dietro sua istigazione. «Non ammetterò mai che ho perso — dice il presidente uscente — e se Pence fa la cosa giusta, ho vinto io». Prosegue dicendo che le elezioni americane «sono peggiori che nel Terzo mondo». Fino a quel momento la folla trumpiana si è accalcata sui prati a sud della Casa Bianca, attorno al grande obelisco che domina The Mall, nella spianata tra i palazzi dell’esecutivo e la collina del Campidoglio dove ha sede il Congresso. Migliaia di americani venuti dalla provincia profonda, famiglie con bambini, anziani, ex militari, uno spaccato di quella «nazione di mezzo » che si sente disprezzata dalle élite delle due coste, manipolata dai media, tradita dall’establishment. Religiosa, conservatrice, ma fondamentalmente pacifica nella maggioranza. In mezzo a quel popolo trumpiano, indignato per la «vittoria rubata», si notano però dei gruppi in tuta mimetica, forse armati. Alcune di queste milizie hanno preparato l’assalto. Facebook ha chiuso, troppo tardi, pagine in cui si scambiavano istruzioni per una guerriglia coordinata, raid a sorpresa. Galvanizzati dalle parole di Trump, all’una in punto i gruppi più determinati partono verso la East Front Entrance del Congresso. Là dentro sta cominciando l’altra insurrezione, quella capitanata dal senatore del Texas Ted Cruz e dalla sua «sporca dozzina» di trumpiani, più un centinaio di deputati repubblicani alla Camera, obbedienti alle direttive del presidente, decisi a contestare la conta dei voti. All’esterno, parte l’urlo «Stop the steal» (fermate il furto, dei voti s’intende) e la folla preme contro un cordone di polizia del tutto insufficiente. Alle tre ogni resistenza salta, lo sfondamento è totale, le forze dell’ordine attorno al Campidoglio sono travolte, nel panico. Gruppi di manifestanti irrompono negli augusti palazzi del Congresso, dalla monumentale Statuary Hall dilagano verso gli uffici dei parlamentari. Spaccano vetri, sfondano porte, rubano quadri e foto. Le telecamere di sicurezza inquadrano agenti del Secret Service asserragliati dentro l’aula del Senato con le armi puntate per resistere contro gli assalitori. Il caos è ai massimi, viene annunciata l’evacuazione di Pence «verso un luogo segreto, sicuro ». Vengono distribuite maschere antigas ai parlamentari rimasti prigionieri dell’assedio. L’ufficio della presidente della Camera Nancy Pelosi è saccheggiato e vandalizzato. Si sentono colpi di arma da fuoco e viene evacuata una donna ferita: morirà poche ore dopo.Alle tre e mezza, quando già il Congresso è un bivacco di manifestanti, Trump twitta «niente violenza, ricordatevi che siamo il partito della legge e dell’ordine». La sindaca di Washington ordina il coprifuoco a partire dalle sei, ma sembra un annuncio velleitario: la folla è padrona della piazza e dei palazzi istituzionali. Alle tre e 45 un altro annuncio lascia sconcertati, è la mobilitazione della Guardia nazionale, 1.100 uomini in divisa per soccorrere una polizia allo sbando: ma il dispiegamento dei militari era stato dato per scontato due giorni prima. Una catena di errori e sottovalutazioni si sovrappone alle azioni incendiarie di Trump. Quando prende la parola dalla sua casa di Wilmington Biden, la battaglia di Washington ha già seminato paura e distruzione, il mondo intero osserva immagini di un Congresso occupato, pieno di manifestanti che usano la tattica del sit-in, si sdraiano nelle aule parlamentari, decisi a resistere.

È l’America delle milizie che proclama il suo orgoglio per aver rubato alla sinistra radicale degli anni Sessanta, ai Black Block, a BlackLivesMatter e Antifa, le tattiche della disubbidienza civile, dell’anarchia violenta, della guerriglia urbana. La FoxNews, il più potente network di destra (proprietario Rupert Murdoch) è sotto shock, sbanda e oscilla nel raccontare gli eventi: ricorda che le manifestazioni antirazziste hanno messo a fuoco e saccheggiato tante città d’America, ma poi amplifica le condanne dei repubblicani legalitari come Mitt Romney: «Tutto quel che accade oggi è colpa di Trump». Quando Biden prende la parola, denunciando che «questo non è dissenso, è insurrezione», il futuro capo dell’esecutivo cerca di dare un senso alla giornata impazzita. Nel bel mezzo della battaglia di Washington, Biden lancia un ultimatum al suo predecessore: «Chiedo al presidente Trump, vai in televisione subito, a difendere la Costituzione». L’altro naturalmente non può sembrare agli ordini e quindi niente tv, ma un video su Twitter. Un blando appello ai suoi: «Siete stati vittima di un’ingiustizia. So come vi sentite. Ma andate a casa, e fatelo in pace», twitta Trump. Non c’è pentimento, nessuna lezione appresa. Anzi resterà per sempre la leggenda della vittoria rubata, di un presidente Biden illegittimo. Così vuole Trump, aggravando una lacerazione fra le due Americhe che è in corso da decenni, ma mai aveva raggiunto l’abisso di queste ore.Il vicepresidente Mike Pence in una lettera si dissocia dai tentativi del suo capo di coinvolgerlo in un ribaltone elettorale: “Amo la Costituzione”. All’esterno parte l’urlo: “Fermate il furto”. Dentro, vetri spaccati e porte sfondate

(Fonte: La Repubblica)

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